Hans-Joachim Staude.

Antologia della critica 1938 – 1972

A cura di Monica Vinardi

In occasione dell’evento “Hans-Joachim Staude e l’arte del Novecento Italiano”, che comprendeva una mostra (18-22 novembre 2015) e un primo incontro di studi (18-19 novembre 2015) dedicato esclusivamente a Staude ed ebbe luogo a Venezia presso la Fondazione Cini, Monica Vinardi ha compilato la seguente raccolta di voci critiche pubblicate in occasione delle sue mostre personali.

 

1938

 

[Galleria Schacky, Firenze, Lungarno Guicciardini, 1938]

 

Donna e ragazza con fiore, una delle opere del pittore Hans Staude esposte nella mostra che apre oggi alle ore 17 alla Galleria Schacky.

Questo interessante dipinto, eseguito già nel 1931, ci mostra l’artista all’inizio della sua ricerca una forma sottilmente robusta e sinceramente intera, di cui si può dire che è stata e rimane la sua principale caratteristica.

Nato a Port-au Prince, Haiti, nel 1904, Hans Staude fu educato ad Amburgo, dove iniziò lo studio della pittura. Venuto in Italia nel 1925 per recarsi in Sicilia, interruppe il viaggio di ritorno per fermarsi a Firenze e si appassionò talmente per questa città, da rimanervi per due anni, in cui viaggiò estesamente per tutta la Toscana. Ritornato in Germania, presto cedette all’irresistibile richiamo di Parigi, dove rimase per pochi mesi, passati i quali decise di ritornare a Firenze e di stabilirsi definitivamente nella “Culla dell’arte” che da sempre ha ispirato tutti gli artisti.

La mostra di dipinti e disegni sarà inaugurata oggi alle ore 17 con un’auto-presentazione di Staude, il che è una novità nel mondo dell’arte, ma sarà di grande aiuto per tutti i presenti per una comprensione più completa e soddisfacente dell’opera e delle intenzioni dell’artista. (Tradotto dall’inglese.)

 

1940

Mostra presentata con discorso introduttivo da Giovanni Colacicchi

[Lyceum, Firenze, Via Ricasoli 28. Mostra del pittore Hans-Joachim Staude, 7-26 marzo 1940-XVIII]

 

  1. Del Massa, Mostre d’arte a Firenze. Joachim Staude, La Nazione, 19 marzo 1940

“Presentando la mostra del pittore Hans-Joachim Staude, il pittore Giovanni Colacicchi ebbe a dire che la sua pittura doveva considerarsi come figurativa; questa definizione va intesa nel senso che la pittura dello Staude non è del solito verismo, ma piuttosto immaginativa. Anche il colore segue un proprio senso, un sentimento della realtà, così nelle cose e nel paesaggio, come nella figura umana.

Sono ventisei pitture e senti che l’educazione del pittore sul suolo italiano e toscano si è affinata senza perdere tuttavia del suo carattere iniziale. La compiutezza formale o meglio stilistica del pittore si rivela in modo particolare nella definizione delle atmosfere: un paesaggio ha una sua luce, un suo tono; la natura morta è nei suoi passaggi legata per un filo conduttore continuo e la figura, il ritratto è Immagine ben fissata nei suoi movimenti. Quindi il colore assume, a seconda dei casi, una funzione precisa di potenziamento, di integrazione dei diversi elementi e si hanno quasi sempre armonie di un ritmo riconoscibilissimo.

La forza inventiva dello Staude non si disperde in esteriori ricerche; e la sua azione interiore non ha nulla che denunci i difetti dell’intimismo estetizzante.”

 

1941

[Gallerie dell’Accademia, Firenze, 1941]

 

1942

[Galleria di Roma, Roma, 1942. (Tre artisti tedeschi che vivono in Italia: Stadelmann, Staude, Bergmann)]

 

[Galleria d’arte contemporanea, Milano, 1942]

Corriere della Sera, 14 novembre 1942: “La settimana artistica”

“… Alla Galleria d’arte contemporanea Gioacchino Staude espone interessanti saggi di una pittura dove i diversi valori hanno conseguito, figura, paesaggio o composizioni di oggetti, un equilibrio che può servire di esempio …”

 

 

1947

[Circolo Artistico, Bologna, 20 aprile – 1 maggio 1947. Mostra degli Stranieri Baldwin, Bargheer, Clench, Gordon Morrill, Snijders, Staude]

…Nel 1928-1929 è a Parigi, nel 1931 a Madrid, nel 1937 a Londra, dal 1935 al 1938 frequenta l’Accademia di Belle Arti di Firenze. Ha esposto a Firenze, Roma, Milano…

 

 

1948

[Galleria Michelangelo, Palazzo Davanzati, Via Porta Rossa, Firenze, personale H.-J. Staude, 10-21 gennaio 1948]

Presentazione di Giorgio Settala:

“Come i poeti del grande ciclo romantico, come i molti artisti tedeschi che visitarono il nostro Paese dal ’700 ai giorni nostri, Hans-Joachim Staude venne in Italia a vent’anni per un breve viaggio. Venne con l’entusiasmo del neofita per il classico tempio del sole, per il cielo azzurro, per il mare, per i monumenti, per le antiche rovine. Venne per un’esperienza personale, poiché Staude non è di quei tedeschi che viaggiano col Baedecker; e scoprì un nuovo mondo, il suo mondo artistico. Piantò le sue tende a Firenze e vi rimase per sempre. Una simile risoluzione non è nuova nella storia degli artisti tedeschi, soprattutto nel periodo romantico ottocentesco: Feuerbach, Böcklin, Hildebrand, Marées soggiornarono a lungo in Italia.

Staude è nell’anima un filo-mediterraneo e un romantico. Ma a questo punto si rende necessaria un’altra osservazione. Nell’artista tedesco l’essere romantico non elide lo spirito gotico. Il romantico è un fenomeno di contingenza con caratteristiche europee, il gotico è un coefficiente costante della psicologia tedesca come il classico è tipico dell’anima mediterranea. Lo spirito tedesco è essenzialmente verticale, cioè gotico; quello mediterraneo è tondo, cioè classico. Ed ecco quali sono le conseguenti relazioni dei due diversi ingranaggi mentali: Staude si professa sincero discepolo di Cèzanne; e la sincerità e la coerenza in lui non sono da mettere in dubbio; fanno parte della sua stessa natura. Ma di Cézanne, di questo artista intimamente e decisamente mediterraneo, nell’opera di Staude non v’è traccia. Esiste in essa invece un riflesso di Corot, anche lui francese ma nordico e di Vermeer olandese. Vi si possono ravvisare forse anche delle influenze mediterranee, come quelle dei Macchiaioli toscani, ma in senso infinitamente più vago e indeterminato. Lo spirito gotico è nel subcosciente di tutta l’arte tedesca, dalle origini fino agli espressionisti. Da noi esiste uno ‘stile’ gotico che è caratteristico di un periodo e cessa con Masaccio e Brunelleschi; in Germania lo ‘spirito’ gotico si identifica con l’anima tedesca. Questa goticità si ritrova fatalmente nell’opera dello Staude malgrado il suo sentimento romantico, malgrado i caratteri italici che per la sua sensibilità lo rapportano all’ambiente in cui vive, non possono rimanergli estranei, come nelle opere mediterranee di Goethe e di Heine è presente una certa sonorità italiana.

Staude si pone di fronte al vero, direi quasi, senza problemi. Egli li respinge per il suo modo di ragionare logico, restio all’avventura, strettamente agganciato alla realtà. Conosce le proprie possibilità, forse le sottovaluta perché ha pieno il senso della responsabilità. Nel fervore della ricerca e nel continuo affinarsi della sua opera è evidente un progressivo processo d’evoluzione.

C’è una forza che lo sostiene in qualsiasi prova: il senso della musica e dell’armonia. Considerate il profilo della sua bambina, che è una delle opere più recenti, contenuto in accordi grigi, azzurri, rosa, così puro e senza ombra: sembra una lezione moderna e chiara di Vermeer.

Ma non spetta a me addentrarmi nella critica delle opere esposte in questa mostra. Nel presentare l’artista e l’amico ho tentato di porre in rilievo il clima storico e psicologico in cui matura il suo lavoro.

 

 

Alessandro Parronchi, H.-J. Staude alla Michelangelo, Pomeriggio, 19. 1. 1948

“Confrontando l’attuale pittura di Staude con quella di qualche anno fa non si può negare che l#artista si sia sottoposto, nel corso di questi anni, a una specie di macerazione, nell’intenzione di raggiungere una particolare forma pittorica. Non tanto conta perciò questa forma “imitata”, quanto l’intensità di quella macerazione, derivata da un naturale ritegno, da un pudore che, anziché vincersi preferisce accettare, col senso delle difficoltà formali, una vera schiavitù. Di questo ci si accorge se si confronta, ad esempio, la gamma coloristica, tendente al viola soffuso, al rosa, all’azzurro, colori, diremo così, preesistenti nell’immaginazione del pittore, con gli effetti atmosferici a cui ci si sforza di condurli (si veda come felicemente in Via de’ Serragli f. c.), e tra l’impianto a volte convenzionale e tutto il sistema di tenui rotture a cui viene sottoposto nella ricerca di essenzializzarlo (in particolare nei paesaggi veneziani). In questo lavoro una natura morta si trasforma a poco a poco nei modelli sui quali viene costantemente a esemplificarsi. È l storia di Hans J. Staude, pittore di Amburgo.

 

 

1951

[Galleria Vigna Nuova, Firenze, 1-14 aprile 1951. Mostra personale di Staude, Presentazione di John Pettavel: Sull’arte di Staude]

“Per stabilire gli elementi di giudizio con cui si possa valutare il lavoro di Staude, credo sia necessario sottolineare che per Staude il primo assillo è: vedere, vedere con chiarezza. Niente è più difficile che vedere. Ho la sensazione che Staude si serva della pittura appunto per vedere e per intensificare la sua capacità di vedere. Vedere richiede una certa dose d’immaginazione e i pittori ci insegnano a vedere. Nelle sue pitture Staude cerca di far collimare il lavoro dell’immaginazione con la realtà. Perché appunto riprodurre non è “vedere”: la macchina fotografica non “vede”. In questo senso la pittura del Nostro cerca di raggiungere il più perfetto equilibrio fra la percezione immaginativa e la realtà stessa. I buoni risultati dunque di questa pittura si devono al raggiungimento di questo equilibrio e alla qualità dell’immaginazione.

Conoscevo meglio i paesaggi di Staude che non i ritratti, ma non è difficile avvicinarsi ad ambedue con lo stesso animo. Entrambi mostrano le stesse qualità; ma poiché i più recenti quadri presentati in questa mostra sono ritratti, preferisco soffermarmi su questi. Quello che più mi colpisce nei migliori di essi è il loro rifiuto di essere ‘ovvi’. Staude evita la ‘rassomiglianza parlante’. Questi ritratti non chiacchierano, non si muovono né vi fissano con la coda dell’occhio. Vivono in un’atmosfera di silenzio e questa atmosfera è, per me, il loro maggior pregio. A volte i personaggi sembrano sognare, ma il sogno non è il tema della pittura. Un sogno non si vede. Quello che Staude si propone di raggiungere è più arduo e, insomma, non può essere espresso in nessun altro modo che con la pittura. Ritengo che il vero compito di questa ritrattistica sia di presentare la figura nell’atmosfera del suo silenzio. Mediante questa Staude va oltre il particolare, la particolare fisionomia o il caratteristico. Va pure oltre la psicologia: per questo noto la mancanza di enfasi nei tratti. Il particolare porta alla visione generale quando il particolare non adombra la visione – dove appunto comincia il lavoro immaginativo. Inizia allora una accurata selezione di particolari al fine di raggiungere l’atmosfera di silenzio escludendo, in sintesi, il superfluo. I ritratti di Paola, Silvestra, Sofia, del signore cileno, raggiungono l’intento con il rifiuto di gestire, di parlare, e con la loro reticenza suggeriscono un senso di monumentalità.

A proposito di questa preziosa reticenza voglio fare la mia ultima osservazione. Certe pitture offrono i loro pregi al primo sguardo, altre non comunicano subito. Necessitano del tempo per palesarsi. Occorre soffermarsi a lungo, senza impazienza, occorre guardare con ‘cortesia’ poiché la discrezione non è per chi ha fretta ed è distratto. Più volte ho notato che questo si addice alla pittura di Staude. Essa, infatti, tanto più è generosa quanto più la si guarda con desiderio di scoprire. Si guarda un quadro per trarne profitto, non per dargli una lezione.”

 

 

Vittorio d’Aste, “Da una mostra all’altra. Staude alla Vigna Nuova,” L’Avvenire d’Italia, 13 aprile 1951

“Pittura suggestiva e sostanziosa quella di Staude, che espone alla Vigna Nuova paesaggi e ritratti validi e sensibili di un silenzioso raccoglimento.

Sono passati su di lui gli entusiasmi dell’impressionismo tedesco e francese lasciandogli la eco di un’influenza operante a conquistare gusto e magistero stilistico in opere autonome.

Natura di pittore nordico, Staude d’esperienze internazionali ma raggentilito nel clima mediterraneo, pensoso di una interiorità ricca di vita espressiva. Nei paesaggi, intessuti di una avvincente malinconia, racconta stati d’animo contemplativi per pennellate avvedute e commosse, senza compiacenti residui di materia superflua: nei ritratti, composte e viventi evocazioni, non dipinge l’immagine del soggetto nell’ineccepibile somiglianza soltanto, sibbene lo spirito di ognuno da lui colto in atteggiamenti essenziali, irripetibili.

Nella pittura moderna, questo elaborato solitario di raffinata cultura ha una voce sua e la esprime con grazia e con forza modulandola ad una tastiera di luce inconfondibile irrorandola di una sottile poesia.”

 

1955

[Galleria Spinetti, Vicolo degli Armagnati, febbraio-marzo 1955]

Giovanni Colacicchi, Mostre d’arte. Staude, La Nazione, 5 marzo 1955

“Ogni esposizione personale di Hans-Joachim Staude segna un punto importante nell’intima storia dello sviluppo di questo pittore. Ne abbiamo già viste quattro o cinque, e quella che egli ha ordinato alla galleria Spinetti, e che si potrà vedere fino all’8 di marzo, ce lo mostra ora in uno stato che si potrebbe dire di “pensosa allegrezza”. Sembra che egli abbia trovato dentro di sé qualcosa di nuovo, di più leggero, e nello stesso tempo più sostanziale. Ai suoi delicati rosa, al grigio azzurro delle sue nebbie veneziane, non corrisponde infatti un sia pure raffinato disfacimento, ma anzi una più chiara esattezza di rapporti di colore e di pensiero, e cioè, alla fine, anche una maggiore solidità degli oggetti della fantasia.

Egli dunque espone questa volta tutta una serie di paesaggi dipinti in questi ultimi tempi. Era da prevedersi che quest’anima fiorentina, nata sull’estuario dell’Elba, dovesse a un certo momento chiedere all’incanto di Venezia la dinamica spinta a quella libertà che noi ora gli troviamo.

La rigorosa aria toscana in cui egli è cresciuto e si è fatto le ossa, nel dargli la consistenza lo aveva anche portato a una certa secchezza. Si poteva osservare nella sua arte un principio di indurimento. Con la scoperta dell’importanza dei valori del ritmo (e voglio dire proprio dei valori di pura musicalità della linea), o piuttosto con lo attuare un maggiore equilibrio fra gli elementi costruttivi e figurativi e gli elementi che concorrono all’ordine compositivo, egli ha superato il pericolo. Si vede che, alla fine, i problemi di ogni mestiere sono puri problemi di mestiere. La maggiore, o piuttosto la più scoperta armonia compositiva, contrariamente a quanto molti ritengono, non solo non toglie alla forma il suo potere di allusione figurativa, ma anzi lo rafferma. La pittura, proprio perché più armonica, riesce anche più solida e più icastica. Il contrario non può essere che assurdo, anche se su di esso si appoggiano tutte le teorie della falsa spiritualità nella pittura. V’è poi in questa mostra un piccolo gruppo di figure che contiene più o meno tutte le intenzioni e le aspirazioni che abbiamo osservato nei paesaggi veneziani. Ma forse in esse non è stato ancora raggiunto quel grado di felice attuazione. Il colore non è stato portato alla stessa chiarezza; le necessità della modulazione formale lo hanno un po’ mortificato. Ma le immagini sono vivaci, ben concepite e ricche di valori fisionomici.”

 

Trasmissione, Radio Firenze, 2 marzo 1955: Omero Cambi, Alla Galleria d’arte Spinetti in Vicolo degli Armagnati… Mostra personale di Hans Staude, il pittore felice!

“Hans Staude è nato a Haiti, ha studiato ad Amburgo e vive a Firenze, dove insegna privatamente e presso Istituti, ma ha opere nelle maggiori collezioni d’Europa e d’America. Ottime ragioni, indubbiamente: eppure non si capisce perché debba essere tanto felice.

Ha una bella moglie tedesca e due bei bambini italiani, ed abita in Via delle Campora, su un aperto panorama di alberi e di cielo. Eppure c’è molta gente nelle sue condizioni che non è affatto felice come lui. E allora?

Il fatto è che Staude è felice semplicemente perché non ha paura della felicità.

Davanti a quei bei paesaggi armoniosamente equilibrati e colmi di luce, qualcuno, colpito dalla composta dolcezza che ne spira, ha tuttavia esitato tra il si e il no, ed ha finito con l’obiettare: “Peccato che Staude ci descriva un mondo così bello!”, volendo intendere che il bello è per sua natura un po’ troppo piacevole, e la felicità è un po’ troppo superficiale.

Ecco un’affermazione che ha il potere di mandare in bestia quest’uomo sorridente. Superficiale la felicità? Ma la felicità, afferma Staude, può essere profondissima. E chi ha detto che non può essere più profonda dell’infelicità?

“Visto che abbiamo tutti capito che il soggetto in sé non ha importanza, non andiamo, per favore, a cercare il brutto e il tragico di proposito, non cadiamo in questa convenzionalità alla rovescia! Non bisogna aver paura delle cose belle!”

Insomma la felicità è l’unità di misura di questo pittore. Quando ti presenta i suoi quadri a uno a uno, non dice come tanti altri: “Ecco una cosa che mi sembra interessante”, oppure: “a questo tengo in modo particolare”. Dice: “Questo l’ho dipinto in una giornata meravigliosa”, o addirittura: “Dio, com’ero felice, qui!”.

Alla sua mostra c’è stata moltissima gente, ma Staude si lagna del fatto che è tutta gente di qualità, o molto nota, o molto ricca.

Ma sì, avete sentito bene, non c’è errore. Dice: “Dove sono quelli che non possono comprare, e che non compreranno mai, ma che devono vedere, perché ho dipinto per loro?”

La mostra raccoglie una trentina di opere, tutte recenti: paesaggi di Venezia e di Firenze, e qualche eccellente ritratto.

Sono momenti di meditazione, adorazioni gioiose in cui si continua un discorso sempre coerente e sicuro; e come sia che Staude non si preoccupi minimamente di mode e di maniere, è un segreto semplice: rendere col minimo dei mezzi, e soprattutto concepire l’insieme, vedere subito e senza esitazione i rapporti tra forme e colori, non fermarsi mai al particolare, né speculare su significati psicologici o abbandonarsi a letteratura. È questo che Staude, poi, insegna ai suoi allievi, convinto, tra l’altro, di fare opera morale: ed ha ragione.

È possibile che qualche volta una gioia così totale, a occhi chiusi, sfiori qualche facilità di gusto?

Sì, è possibile. Ma Staude in fondo è sorvegliato strettamente da una sua spiritualità, a cui si affida con fiducia: ed anche qui ha ragione.

La mostra proseguirà fino all’8 di marzo, ma Spinetti ha intenzione di tenere aperto, d’ora in poi, anche la sera.

Dunque, chi vuol vedere questa meraviglia, un uomo perfettamente felice, venga in Vicolo degli Armagnati. È uno spettacolo che non si trova spesso, e che fa bene!”

 

  1. R., Mostre d’arte. Staude, Il Nuovo Corriere La Gazzetta,11 marzo 1955

“Hans Staude ci offre l’immagine ormai rara d’un pittore esclusivamente assorto nella cultura dei pallidi fiori del proprio orticello: ma entro questi limiti egli scava con così delicata tensione, che finisce col persuadere della sincerità a suo modo esemplare del suo lavoro. Nella mostra alla Galleria Spinetti le visioni fiorentine e veneziane sono evocate da un fervore casto della memoria in tagli non convenzionali animati da un colore un po’ esangue, e tuttavia assai trepido. La quiete costante delle luci penetra i dolci fantasmi architettonici e ne restituisce versioni immemori dell’originaria perentorietà: le situazioni urbanistiche sono spogliate delle relative condizioni naturali e assumono, in queste nostalgiche evocazioni, i colori tenui e un po’ uniformi dei miti crepuscolari.”

 

 

1955

[Galleria Il Camino, Roma, 1955]

 

 

1956

[Istituto Italiano di Cultura, Amburgo, 26 maggio-8 giugno 1956, Pastelli romani]

Presentazione del Direttore Marianello Marianelli

 

 

1957

[Galleria Vigna Nuova, Firenze, 1957, personale di Staude]

Presentazione di Paola Berti

 

“I lavori di Hans Staude non hanno bisogno di molte parole; sarebbero necessari anzi il silenzio e l’attenzione poiché in silenzio e con attenzione furono creati grado a grado con una seria fiducia ed onesto impegno.

Per questi pastelli, dunque non c’è bisogno di quelle parole astratte e dense di imprecisi ma rimbombanti significati, perché il mondo che essi ci lasciano scorgere è il nostro, quello semplice, di tutti i giorni; raffigurazione di un’esistenza indiscutibilmente vera e gentile: lo spazzino, il barista, la ragazzina, l’uomo del posteggio; tutta una varietà di umane presenze in attesa. Staude non vuole dire alla gente ciò che essa crede di essere, non vuole svelare gli oscuri e i profondi meandri dell’umana essenza interiore perché non è questo il suo scopo, ma vuole dire una parola serena che è poi quella più vera senza sofismi né ricercate complicazioni.

Questa pittura nel primo momento può apparire perfino troppo semplice, ma poi, attentamente ascoltata con semplicità di cuore e con amore riesce a svelarsi densa di simbolismo. Un simbolismo che è antico ma sempre nuovo come il mondo perché si chiama vita. Così il ritratto della madre, di alto valore pittorico che nella preziosa densità del nero, svela una serena rassegnazione, una valorosa attesa; così l’uomo in giacca bianca che lascia pensosi soprattutto per quella ricercata posizione dei colori, svelandoci quanto importanti in questa rassegna essi siano per il modo nel quale vengono usati e vibrati. Modo che induce alcune volte a una più fonda penetrazione del mistero vitale che è poi quello della verità. Ma continuare a insistere sulla verità non è, parlando di Staude, un ripetersi perché l’attenzione al vero che egli attua è il fulcro di tutta la sua intenzione umana e quindi artistica e più di ogni altra trovata nell’opera sua spiega questa profondità raggiunta.

Così come le figure sono estatiche, pensose immagini di gente che si sofferma solo per poco, nell’attimo provvisorio ed eterno del proprio mutare, anche per i paesaggi il discorso non è molto diverso, poiché anch’essi sono presi in un momento che passa e ci regalano quella luce sognata e pur vera, vivente o sospesa, mai contorta né sforzata, invece ben costruita fra masse semplici e volumi sfumati; possenti blocchi che si inclinano sulla loro ombra nell’immobilità, essi pure, nell’attesa pacata e grande che è il contorno dell’universo e la sua più alta significazione. Quindi ancora verità che trascende e si articola ed è poi immagine interiore di poetica fedeltà alla vita.

La posizione odierna di Staude è di un artista che continua a migliorarsi, che non si fossilizza pago di sé: guardato in retrospettiva lo si trova oggi mutato e lo si vede continuamente affinarsi e rendersi di volta in volta più duttile e lieve. Il suo scopo è di avvicinarsi sempre più a carpire una luce nascosta, solo intuibile; il suo è un lavoro contemplativo ed è perciò che egli a questa contemplazione invita.

Staude è là, trait-d’union fra noi e la natura. Ed è proprio in questo suo esser ‘mezzo’ che egli è una voce isolata al servizio dell’intelligenza, e forse ancor più dell’anima.

In quanto al colore, al metodo vero e proprio, egli è un possibilista; tratta il pastello in maniera preziosa. Spinto alla ricerca del colore, il suo sguardo vede senza incantamenti né compiacenze, ma con quel distacco eroico dell’artista che serve un mistero ma che non vuole inventarlo; il nemico più aborrito di Staude è appunto l’invenzione intellettuale, la fantasia della mente che sa come vedere, ma che invece non vede.

Ed è via eroica ancora, questo avere da parte del pittore deliberatamente rinunciato al facile del tocco forte, calibrato, della scomposizione o comunque dell’avventura (che ha oggi successo) ed avere intrapresa, invece, la via dettata da una interiore convinzione, la via di una ricerca onesta di un sincero dinamismo moderno, di un modo per far sentire la propria voce che è voce nostra, l’abbiamo già detto, di questo mondo assorto in sé ma non sa di essere tale e che da questa divina possibilità fa di tutto per allontanarsi e per guardare vagamente il sensazionale, per entusiasmarsi dl formidabile e dell’incongruo.

 

  1. Colacicchi, Mostre d’arte, Staude, La Nazione, 23 marzo 1957

“Staude. Dopo circa due anni dalla sua ultima personale a Firenze, Hans-Joachim Staude ci offre alla Galleria della Vigna Nuova una raccolta dei suoi più recenti pastelli.

Staude ha la fortuna di non avere preconcetti nei riguardi di quanto può materialmente servire alla sua volontà di espressione. E così, di un mezzo estremamente modesto, o per lo meno considerato come tale, egli ha creato uno strumento dei più complessi e completi.

Chi conosce la precedente pittura di Staude e i suoi disegni, ha la perfetta sensazione, guardando questi suoi pastelli, che egli, non solo non ha rinunciato a nulla delle sue idee sulla pittura, ma che anzi le ha allargate; e proprio per il fatto di aver realizzato, con questo suo nuovo mezzo, dei valori pittorici (e poetici) a cui prima non era ancora pervenuto.

La verità è che il pastello, come lui lo adopra, è tutt’altro che un mezzo limitatore. Non è facile vedere degli scuri profondi così chiaramente modellati e, d’altra parte, dei chiari così modulati e cantanti. Né è frequente vedere unita a una chiarezza volumetrica simile a quella delle case che egli alza contro il cielo, una così ariosa leggerezza d’atmosfera; il senso cioè dell’aria interposta fra le cose, già densa per la distanza, che fa i colori più delicati e li apparenta e li fa più vicini, senza che essi mai perdano la loro propria qualità individuale di rosa di rosso d’azzurro.

L’ultima volta che abbiamo scritto della pittura di Staude notavamo una minore tensione pittorica nelle sue figure rispetto ai paesi. Dobbiamo dire questa volta che, o il nostro giudizio allora non era esatto, o il pittore ha progredito molto verso lo scopo che noi allora ritenevamo meno raggiunto. Si potrebbe anzi dire che in questa esposizione quello che Staude ci mostra di più compiuto sono proprio le figure, i ritratti. E se si può essere fino a questo punto pedanti con un artista che si stima, diremo che quello che nelle sue figure ancora non ci convince (e probabilmente per pure ragioni tecniche) sono se mai le mani, che non hanno la chiarezza strutturale dei visi, la loro parlante forza fisionomica. Salvo nel ritratto della madre, che è tutto equilibrato; nel quale, cioè, le mani hanno lo stesso valore strutturale e parlante che si ammira nel viso.”

 

Gli occhi sui quadri di Vittorio d’Aste, Osservatore Toscano, 21 aprile 1957

“… Alita poesia nei lirici pastelli di Hans Staude che sono esposti alla Vigna Nuova: c’è in essi valenza palese, preziosità rara, concentrate per maestria di mano e magia di colore. Penetrati d’interiorità i caratteri dei ritratti, che l’artista interpreta e risolve per sentita commozione. Non è agevole, oggi, incontrarsi con un pittore che sappia riassumersi e confessarsi mediante un modo propriamente suo. Sì, perché il pastello di Hans Staude, armoniosamente fuso nei molteplici toni cromatici, tocca l’eccellenza di una nota inconfondibile, atta a suscitare il fascino della bellezza: di quella sempre vagheggiata e possibile dagli artisti severi, nutriti di studio di esperienze e di amore.

La sua sapienza disegnativa può anche sorridere alle inesplicabili riserve del critico sulla carenza espressiva delle mani! Appare ben definito il netto distacco di lui, pittore compiuto e sano, dalle innumeri tavolozze anonime esaltate, purtroppo, da critici malcerti e tendenziosi che, vogliano o non vogliano, si fanno complici dell’antiarte.”

 

 

 

1959

[Galleria Santo Stefano, Venezia, 13-23 giugno 1959, 22 dipinti a olio e pastelli, presentazione di Mariano Marianelli

“C’è in Staude un’intima – più che atmosfera – sostanza, una specie di polpa luminosa dell’anima, che sa divenire, senza scatti di colore, con un indugio quasi vegetale, forma; e si riposa in quella. Ma è un finto riposo; i suoi ponti o volti, riflessi d’acque o case, restano uniti a quella sostanza, ne serbano memoria o gratitudine pur distratti nella vita che vivono. Il fulvo alito di luce che investe le “Fondamenta delle Eremite” è tipico della pittura di Staude allo stato nascente, il colore, per così dire, del suo animo.

Ma come ha imparato poi questa luce nordica – o intima, che è lo stesso – con quale sicurezza superiore all’emozione, a fermentare nei cieli e negli sfondi, a farsi sangue misto a una cenere calda come la carne delle “Due ragazze”, prezioso come ermellino nell’ombra del “Giovane in giacca bianca”, sgargiante come il succo di un frutto nella stoffa della “Natura morta”, a impastarsi con le case.

Chi appena conosce la luce del Nord – quella sul Baltico, per esempio, o quella sulla brughiera intorno a Lüneburg – sa bene quanto poco abbia desiderio o forza – che è lo stesso – di gridare la sua gioia. Ma non saprà mai bene quanto essa sia capace di godere delle forme che raggiunge, con quanta gelosa fermezza le accompagni fuori della pura impressione, con che disadorna grazia quasi popolaresca nell’ “Anita” di Staude, le sappia comporre.

Si arrabbierà qualche pittore “moderno” se si dice che questa pittura di Staude ha qualcosa in comune con la sua: lirica, intima, poco narrativa. Ma più si arrabbierà se si dice che il vero romantico è lui in confronto a questo tedesco il quale è persuaso – o l’ha imparato in Toscana – che, anche e specialmente per un pittore, valga poco avere l’anima se non si arriva a nasconderla – col rischio di sfuggire a ogni tragedia – nei visi, nelle case, in poche forme.

Pisa, giugno 1959”

 

Minosse, 20/06/1959, Alla S. Stefano – Hans Staude

Hans Staude, nato nel 1904 a Port-au Prince (Haiti) ma residente a Firenze ormai da 34 anni, è stato allievo di Felice Carena e del maestro conserva la tenuità del segno, la dolcezza del colore e la delicata polposità della materia.

È evidente nelle opere di Staude (ne presenta 22 tra olii e pastelli) una ricerca di far parlare la composizione. Soprattutto nei ritratti, l’artista è impegnato a ‘creare’ l’intimo del soggetto, a rivelare dati personali, posizioni psicologiche.

Nel Giovane in giacca bianca Staude raggiunge la perfetta fusione tra l’elemento formale – coloristico e quello psicologico. È un’opera veramente preziosa. Ma non dobbiamo dimenticare quel Giardiniere che, liberatosi delle caratteristiche della … ritrattistica si fa paesaggio.

Segnaliamo che alcuni ritratti sono a pastello su speciale carta vellutata, che dà alla composizione una consistenza e una corposità veramente eccezionali. Tra i paesaggi, particolarmente efficace ci sembra Sobborgo di Firenze colmo di quella solitudine ….

 

 

Su Il nuovo corriere degli Artisti: “…espone paesaggi fiorentini e veneziani, figure con tendenza al ritratto. Buon successo di critica e di pubblico.”

 

 

Vice (Luigi Scarpa), in Il Gazzettino, 25 giugno 1959

“Note caratteristiche di questa bella mostra di Hans Joachim Staude sono la finezza e l’eleganza, ma colpisce soprattutto la profonda trasformazione che l’ambiente ha operato su questo tedesco, che ci pare non abbia più nulla di nordico, tutto impregnato com’è di luce e di atmosfera italiana. E non solo nel paesaggio che ama di più: quello fiorentino, dove da anni vive, o quello veneziano che ritrova sempre con consono al suo spirito e al suo amore, ma anche nella figura e nel ritratto, che sono così caratteristicamente impostati secondo una classicità tutta nostrana. Potremmo anche dire che Staude è chiuso alla esperienza moderna del “novecento” (ma è in essa che mi sono ritrovato”, dice il pittore), ma è anche innegabile che essa è al di là di ogni retorica e di un forzato tradizionalismo in senso nazionalistico – non li appartengono – poiché è invece scopertamente una forma fresca, spontanea, in cui l’artista si immerge con costanza e semplicità perfino, raggiungendo una unità non solo tecnica ma anche chiaramente spirituale. Sensibilissimo ai valori plastici del tono, lo Staude li adopera con grande finezza di passaggi e di rapporti e arriva spesso a momenti assai belli. E sciolto è anche il suo disegno e solo in qualche composizione di figure rivela un’eccessiva ricerca di equilibri e di posa. Tra i paesaggi va innanzi a tutti il “Rio delle Eremite” percorso da delicate sfumature di verdi gialli e costruito con rapida immediatezza; subito dopo abbiamo la “Strada fiorentina” di una serena malinconia solitaria e di una vibrazione luminosa raccolta e ridente (ma è anche difficile citare nella sicura eguaglianza dei valori). Importanti anche i risultati pittorici che Staude coglie nelle serie dei ritratti esposti (per i quali adopera spesso una materia quasi abbandonata come il pastello, a cui sa dare un vigore e una sostanza molto robuste, senza tralasciare le tipiche sfumature morbide di questo colore). Ricordiamo velocemente il “giovane scultore”, un pastello di particolare nobiltà, con un tono giallo centrale, che arricchisce la bellissima testa e il “garzone” composto in un ricordo che direi lottesco, e così attento nel tono quasi monocromato, e infine l’acuto ritratto di Adriana, modulato di rosa e di verdi precisi nel raro accordo.”

 

 

1960

[Galleria Le Stagioni, Firenze, Pitture di Hans J. Staude, 26 marzo-8 aprile 1960

Presentazione in catalogo di Felice Carena

“Nella mia lunga vita ho fatto molte presentazioni di artisti e non tutte, come è naturale, con uguale convinzione anche se sempre con speranza, ma questa per l’amico e scolaro Gioacchino Staude la faccio veramente con piacere perché, oltre l’artista che stimo, so di presentare un gentiluomo, anzi un vero uomo, ed oggi è purtroppo abbastanza raro.

È in me viva la speranza di poter parlare non soltanto del lavoro dell’amico, ma aiutare chi osserverà questi suoi dipinti (non facili a comprendersi perché scabri, e profondamente semplici), a maggiormente godere dell’intimo loro colore e della vera luce di poesia.

Questo pittore di origine tedesca che da oltre trent’anni vive e lavora in Italia ed ama e comprende il nostro paese come pochi italiani sanno amare e comprendere, è stato mio allievo all’Accademia di Firenze ed è stato tra gli scolari più seri e attenti. Venne alla mia scuola già culturalmente preparato, di natura pensosa e seria, di animo sensibilissimo, guarda alla natura come sola ispiratrice e maestra, come da secoli gli artisti veri hanno guardato. Lui è convinto (e in questo senso si matura ogni sua ricerca) che la conquista della luce sia la più alta aspirazione del vero pittore. Egli è lontano da ogni forma snobistica e intellettualoide, si pone davanti alla realtà con animo puro, con la sola speranza di scoprirne l’essenza e la bellezza, sicuro di fatalmente trasfigurarla senza ricorrere a volute deformazioni o ad inutili stilismi sapendo egli che lo stile non si prende a prestito, come oggi si fa, copiando, chi la grafia di lontani arcaismi, chi scimmiottando stili negroidi o primordiali, o avventurandosi in vicoli ciechi di puro decorativismo. Egli sa che lo stile, che non è che la voce della nostra personalità, non si conquista che attraverso una profonda ricerca della realtà cercando in essa rigore, ordine e penetrazione.

Il mio amico nel suo silenzioso operare dipinge soltanto ciò che ama, con la più grande semplicità e chiarezza e in questo compito mette tutta la sua serietà di uomo, la riflessione, tutta la sua inquietudine.

L’amico Staude vuole soprattutto restare nei ranghi, come diceva Renoir, egli perciò non vagheggia immediati successi, non fa per raggiungerli inutili acrobatismi, e la parola modernità gli suona male e non lo imbroglia, lui è sicuro che chi lavora con intelligenza e fiducioso amore del proprio sentire sarà fatalmente attuale come oggi si usa dire, e fatalmente moderno. Non temere dunque, caro amico, di essere giudicato, come anch’io non temo, un sorpassato, accademico e fuori tempo. Dio ci aiuti, caro Staude, a essere in quest’ora fuori moda e non appartenere a nessuna avanguardia, che è oggi la più vieta accademia, e non ci tolga Iddio questo privilegio che ci fa soli di una dolcissima solitudine.

Tu lo sai, Staude, tante volte me lo hai detto, che nessun lavoro è più bello del nostro: dipingere ciò che ci piace non pensando che a dare pace al nostro cuore ansioso di anche una piccola verità. Questo grande amore ci consolerà sino all’ultimo giorno della nostra vita e ci salverà dall’importuno inutile urlare, dall’arrembaggio faticoso e vano delle vanità, e soprattutto della imbecillità di voler essere ciò che non siamo.”

 

 

 

 

1963

Accademia delle Arti del Disegno, Mostra Antologica di Hans J. Staude, Sala dell’Accademia, Via Ricasoli 9 – 6-21 aprile 1963, presentazione in catalogo:

 

Hans-Joachim Staude di Ulrich Middeldorf

 

“A chi cammini nel paesaggio italiano e traversi le sue città, Roma, Firenze, Venezia, il mondo si presenta in una particolare maniera. Gli occhi vi sono più fortemente e più singolarmente impegnati che altrove. In un continuo mutarsi egli vede forme semplici, grandiose, in ricca varietà affiancarsi e succedersi, intersecarsi, ammassarsi, estendersi formando spazi angusti e vasti esattamente commensurabili. Superfici di colori dai fini accostamenti e dalle singolari tonalità si compongono in sempre nuove armonie dominate da un vasto cielo cui nubi e sole, il mutare delle ore del giorno e delle condizioni atmosferiche prestano un carattere sempre nuovo, un carattere ogni volta determinante per il tono d’insieme. Luce e oggetti sono tessuti in un’unità di colore, così come si confondono l’una con l’altra la natura e l’opera dell’uomo. L’Italia offre agli occhi una gioia continua, ma che al tempo stesso impone loro il particolare obbligo del vedere comprensivo; onde ogni italiano gode di una sensitiva ed attenta facoltà visiva che gli renda facile collocare nella natura le sue case e capanne, i viali e le siepi, i giardini ed i campi.

Hans Joachim Staude ha trascorso in Italia la sua vita artistica, e dell’esperienza visiva italiana la sua opera è satura. E’ quindi utile averla rilevata sin dall’inizio. Ma qual è il significato di questo legame locale per l’arte di Staude?

Sovente il mondo italiano è stato dipinto da pittori di altri paesi, autorizzati e non autorizzati. Nel caso dei primi – si pensi al giovane Corot – i quadri italiani spesso stanno accanto ad altri con pari diritto, quale un aspetto del mondo, possibile tra i tanti. Sono ovvie espressioni di una profonda intenzione artistica che in Italia ha trovato il proprio materiale più adeguato. Vi si contrappongono assai più numerose vedute dell’Italia che debbono il loro nascere ad altri moventi: innanzitutto ad una romantica nostalgia dell’Italia, alla ricerca dell’allettante estero, della bella natura, delle città pittoresche, del «cielo eternamente azzurro». Più d’un bel quadro è nato così, ad esempio nel periodo del Romanticismo, ma anche molto d’insignificante, come le innumerevoli vedute di località famose che – per quanto estrose possano essere – di rado sono più d’una fotografia. Quanta poi è la orrenda calia vecchia e nuova che per poco non ci ha tolto il gusto dei quadri dell’Italia. Staude non dipinge vedute; e neppure dipinge bellezza italiana. Nei suoi paesaggi e nelle sue città egli predilige, anzi, il soggetto insolito, appartato, pur non evitando di proposito i soggetti ben noti, in quanto partecipi di quell’entità la cui rappresentazione gli sta a cuore. Quel che egli dipinge è l’Italia reale e non l’Italia vagheggiata dalle anime romantiche, – è l’Italia nella sua varietà, nella sua serenità e malinconia, nella sua essenziale serietà; il paesaggio italiano quale lo conosciamo dalla grande letteratura italiana, dal Manzoni al Nievo o al Pascoli, per non dire dei fenomeni affini alla pittura italiana, come i Macchiaioli. Staude è legato all’Italia più intimamente di chiunque altro in una simile posizione.

Staude si distingue da altri pittori dell’Italia per il suo non essere attaccato al soggetto. I quadri gli si affollano dinanzi, perché con occhi interessati ed aperti egli va per il mondo, senza idee preconcette sull’Italia, sulla bellezza, sull’arte. Dipinge con piena disinvoltura, unicamente responsabile all’occhio. E’ questo che lo rende artista moderno e che nettamente lo stacca da una vecchia tradizione spesso buona, spesso cattiva. Lo distingue anche da certe tendenze contemporanee che, più che all’occhio, danno retta al dettato della teoria e della moda. L’occhio di Staude è rapido ed acuto. Gli è perciò facile afferrare tutta la ricchezza del mondo italiano, sia che si tratti di un monumento di larga fama, o di una deserta via di periferia di Roma, oppure di un paio d’alberi o di mura dinanzi alle porte di Firenze. Romantico, certo, questo non è.

Ma abbiamo fin qui descritto un lato soltanto della pittura di Staude. Il miglior modo per accostarsi al suo merito più vero e più proprio è quello di chiedersi perché, discorrendo con lui dei suoi quadri, ricorra con tanta frequenza la parola «giusto». Una composizione, un colore, un particolare del disegno non sono, per lui, più o meno ben riusciti, ma giusti o sbagliati. E soltanto quel che è esattamente riuscito lo soddisfa; spietatamente la mediocrità viene soppressa. I quadri di Staude sono equilibrati e severamente concentrati; tutto in essi è al posto giusto e nella loro «giustezza» essi sono per l’occhio così coercitivi come una buona completa astrazione. A un tale risultato contribuiscono naturalmente i dati della natura e della architettura italiana. Ma già essi stessi rappresentano la sua scelta. Molto più importante, perciò, è far rilevare il suo inconfondibile senso della proporzione e della armonia, nel disegno come nel colore, senso che si manifesta in egual misura nelle sue figure, soprattutto nei ritratti, e nei suoi paesaggi.

Con tutto ciò Staude non si serve di un sistema formale ristretto. Al contrario, sempre nuovamente sorprende vedere con quanti risultati diversi la sua vasta fantasia formale affronti i fenomeni della natura. Entro i limiti posti ad ogni personalità, è notevole quanto libero egli sia nei confronti di se stesso.

Dinanzi all’arbitrio, fratellastro della libertà, di cui oggi più che mai si ha ragione di temere, Staude non conserva soltanto il suo senso per la forma, ma anche le sue convinzioni sull’essenza di un quadro. Deve essere un quadro, ovvero un organismo che sulla parete abbia il suo posto e che lì sembri esatto, che da un lato abbia una legge propria e dall’altro si insinui nello spazio, che sia posta a giusta distanza dallo spettatore. Tutto questo pare ovvio; quanto raramente, però, si trovano quadri che adempiano a queste condizioni. Purtroppo le convinzioni di Staude sul valore individuale e sull’entità del quadro singolo sono ostacolo al loro pieno effetto nell’ambito di una mostra. I suoi quadri vogliono essere guardati uno per uno. E, come buona musica, non si dischiudono subito, ma affascinano alla lunga.

Staude non è mai andato a caccia di successo, sebbene, come ogni artista, egli cerchi l’apprezzamento. Egli è sempre stato troppo impegnato nei suoi problemi artistici per guardare a destra e sinistra; e la sua innata onestà ha fatto sì che il pensiero di un compromesso non sia certo mai affiorato in lui. Non esistono per lui né insolite invenzioni sensazionali, né colori vivaci che sbalordiscano l’occhio. Al contrario, i suoi colori sono attutiti, diciamo, come quelli del primo Munch. E le sue atmosfere sono velate, ma per questo durevoli ed indimenticabili come le melodie dei canti popolari italiani. Torno a ripetere: la sua Italia non è quella esteriorizzantesi, vista dai turisti, ma quella vera, interiore, conosciuta da chi ne ama realmente il popolo e ne comprende la più intima essenza.

Con che cosa Staude avrebbe dovuto scendere a compromessi? Con una delle svariate tendenze dell’arte d’oggi disegnate con la fastidiosa parola di «moderne»? Perché? Non ha egli forse il più di ciò che caratterizza l’arte del nostro tempo, oltre a tutto quello che personalmente gli è proprio? Il faut être de son temps, si suol dire. Ogni uomo sensitivo lo è, e lo deve essere, seppure ognuno a modo suo, e Staude non rappresenta in nessun modo un’eccezione. Voler distinguere nei buoni artisti tra «moderno» ed «antiquato» è del tutto errato. E chi ha avuto molti contatti con artisti, sa che questi sono generalmente gli ultimi a fare tali distinzioni. Per essi esiste buona arte e cattiva arte, ed anche intraprendendo tale distinzione solitamente si preoccupano di cautela e di amore per il prossimo. Se poi il pubblico chiede generalizzazioni che gli facilitano l’inquadramento nelle varietà della vita artistica moderna, gli si risponda che difficilmente molti uomini possono essere ridotti a pochi comuni denominatori, specialmente ove si tratti di cosa così personale come l’arte. Nei confronti di tutti gli “ismi” e contrasti dialettici, bisogna tener fermo che l’unica verità è la limpida e vigorosa personalità, tutto il resto non è che fastidiosa emulazione. Ovunque si trovi una tale personalità dobbiamo accoglierla con gratitudine. Forse questo è particolarmente necessario nel caso di una figura così a se stante qual è Staude.”

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Giovanni Colacicchi, Hans Jo Staude haitiano di Firenze, La Nazione, 29 aprile 1963

 

“La mostra di Hans Jo Staude, che l’Accademia delle arti del Disegno ha ordinato a Firenze nella sua aula di piazza S. Marco, ci ha dato la conferma di quanto già da anni pensiamo di questo pittore che, nato ad Haiti da famiglia di origine amburghese, risiede a Firenze dalla sua giovinezza, e a Firenze ha compiuto la sua formazione d’artista, dopo le naturali esperienze ad Amburgo, dell’espressionismo di Monaco e dell’impressionismo tedesco.

Le opere che egli ha esposto, scelte e presentate egregiamente da Ulrich Middeldorf, direttore del Kunsthistorisches Institut, sono la prova di una personalità giunta a una raro grado di cosciente maturità spirituale, una di quelle che certamente costituiranno i punti di riferimento per l’arte dei nostri giorni, quando alla labile cultura delle avventure pseudo-artistiche e delle venali intimidazioni verrà a sostituirsi l’esattezza della critica storica. Hans Jo Staude è infatti uno degli artisti in cui più si respira il clima di quella che altre volte abbiamo indicato come il nuovo umanesimo fiorentino, umanesimo artistico assai più vivo di quanto non mostrino le esposizioni d’arte nazionali e internazionali e internazionali, regolate ormai del tutto da chi dell’umanesimo, e non solo fiorentino, è dichiaratamente nemico. È comunque da dire che questo umanesimo fiorentino ha le sue moderne radici nel movimento di Solaria, nella rinnovata direzione al Rinascimento ed è sorto come sforzo di recupero dell’integrità dell’arte frantumata dalla esperienza futurista e cubista. C’è alle sue origini anche un certo vivo interesse per il pensiero di alcuni artisti stranieri quali Hildebrand e Marées, che avevano operato a Firenze, e a cui avevano già guardato in Italia, con intendimenti non molto diversi artisti come Arturo Martini e il De Chirico del periodo metafisico e romantico. Non si può dire che questi interessi diminuissero quelli per l’impressionismo francese o per i macchiaioli, solo, se mai, portavano a ricercare, in questi gli aspetti fino ad allora un po’ trascurati, più liberi dalla polemica delle loro origini e per intendersi più classici.

L’adesione di Staude a questo nuovo umanesimo fiorentino non è stata determinata da un’esterna sollecitazione di quello che era l’ambiente culturale del tempo a Firenze. Essa era stata, se mai, sollecitata dalla città stessa, da un modo di vivere a cui egli si era subito assuefatto, da quanto potevano suggerirgli i monumenti, le case, la fisionomia stessa degli abitanti. Insomma dal suo accostarsi da pittore alle cose, alla luce del paese e dai suggerimenti che quelle case, quei visi, quei cieli gli rimandavano dai quadri, dagli affreschi, dalle sculture.

Per quanto riguarda l’arte di Staude, quasi non sarebbe necessario, a questo punto, dire che ebbe subito, e ha poi sempre avuto, carattere decisamente figurativo, e che è sempre stata rivolta verso la creazione dell’immagine, anzi della immagine umana; ma è da precisare, in lui, l’assenza di ogni volontà esteriormente illustrativa, e il suo sforzo continuo di una pittura tutta raggiunta per “toni”, raggiunta cioè attraverso l’articolazione sintattica del colore nel suo modularsi per unirsi alla luce, per emergere nei rilievi, o per approfondirsi nelle ombre, per aderire alla forma, comporre l’oggetto, rivelarlo nella sua tangibile “esistenziale” presenza.

Molto acutamente il Middeldorf rileva, a proposito di Staude, l’importanza della parola “giusto”, giustezza, precisione a proposito degli elementi di questa pittura. La qualità principale di un “tono”, quello che lo rende significativo, costruttivo dell’immagine, la sua stessa essenza, consiste infatti nel suo essere “giusto”, nel suo preciso rapporto con gli altri toni, e cioè nel suo diventare, da semplice elemento cromatico, elemento di un testo razionale, parola di un discorso.

Né sarà qui difficile capire che in tale concezione del tono ha parte fondamentale il disegno, e che nel tono il disegno fino a formare un tutto unico con il colore.

Queste sono le ragioni per cui le figure di Staude hanno una così evidente presenza, si muovono o stanno nello spazio, vivono di così profonda vita sentimentale. Si è parlato di “silenzio” intorno alle sue figure, e pensiamo che giustamente se ne sia parlato; ma non solo e non tanto per la mancanza in esse di momenti esteriormente discorsivi, quanto piuttosto perché i suoi visi hanno tale statica evidenza da non poterli vedere che “taciti”, e come assorti nel loro stesso pensiero.

Una parte delle sue opere a cui vorremmo che si guardasse con particolare attenzione, è poi quella formata dai pastelli. Nulla della frivolezza così facilmente propria dei pastelli si trova in quelli di Staude, anche se non può non apparire che la ragione della scelta di questo particolare mezzo di pittura possa anche essere stata determinata da un certo timore di secchezza, o dal pericolo di dura laconicità, sempre possibile in procedimenti controllati, attenti come quelli della sua pittura a olio (secchezza e laconicità che abbiamo altre volte riscontrate), ma che la sua oculatezza, o anche, forse, quella del suo critico e ordinatore, hanno fatto sparire quasi del tutto.

Questi pastelli hanno una curiosa qualità di resistenza del “tono”, una magrezza carica di sostanza che li fa in qualche modo simili all’affresco, portando così il pastello dall’aura settecentesca che, a parte Degas, è in esso più frequente, ad allusioni quasi rinascimentali e a possibilità espressive, come nel ritratto della madre, frequenti solo a chi trova nell’arte oltretutto anche il più naturale mezzo di dire i propri intimi affetti.

 

 

Vittorio d’Aste, in “Firme nostre”, Settembre 1963:

 

In vista, all’Accademia delle Arti del Disegno, la Mostra antologica del Pittore Hans J. Staude, nato a Port-au Prince, Haiti e operoso a Firenze, divenuta la sua città di adozione.

Una ventina di olii e di altrettanti pastelli lasciano in ammirazione gli esperti e i sensibili visitatori. Intelletto severo, tecnico raro, artista originale di potenza espressiva non comune. Sicuramente eccelle in un tempo ingombro di fallaci valori. Al fatuo primeggiare di tavolozze sterili e clamorose, contrappone opere originalissime che lasceranno orma nel tempo. Ha un mondo tutto suo che esprime nitido senza facili abbandoni per tonalità musicali, considerando la vita e ogni momento di essa pretesto alla conquista del profondo. Non sarebbe agevole seguirlo nelle esperienze della tavolozza complicata e vibrante, straordinariamente viva. Hai davanti paesaggi smagati e diversi, immagini dense di poesia, che non ricordano nessun altro e che danno scacco matto a presunti maestri che la critica del conformismo a catena esalta a occhi chiusi. Firenze e i Fiorentini, Venezia incantano le sue pupille che sanno guardar bene. Non improvvisa: lo soccorre lo studio continuo. Da Felice Carena cercò di agguerrirsi nel mestiere: reazione ad un incipiente romanticismo, si accanì sul vero, dopo aver saggiato l’espressionismo. L’improvvisa scoperta dell’osservazione lo salvò dalle influenze avviandole a quella creatività personalissima di cui la sua Mostra antologica offre qui superbe testimonianze. Tra le opere stupende il ritratto della “Madre”: “Giuseppina” tiene del capolavoro”; fiabesche visoni, tra le altre, “Canale veneziano”, “Via Cantagalli”. L’iridi dei suoi pastelli, che escono, spesso, alle seduzioni dell’affresco; i suoi miscugli di olio e tempera sono un segreto che lo avviano al miracolo. Le composizioni di figure all’ari aperta, la recente tappa cui volge le seduzioni del talento robusto e inconfondibile, o additano fra i migliori artisti che oggi onorano la pittura.

 

1965

[Saletta Gonnelli, 19 aprile-3 maggio 1965, Hans J. Staude. Oli e pastelli recenti (1963-1965)

 

Mostre d’Arte, articolo di recensione su La Nazione (?)

Hans Joachim Staude espone nella saletta Gonnelli recenti pastelli e dipinti. La carica emotiva è uguale nell’impegno delle due tecniche e i risultati anche. Segno di una precisazione specifica del proprio linguaggio che è penetrato ancora una volta in modo estremamente sottile nella lettura dell’ambiente italiano. Firenze e Venezia, i suoi due grandi amori, sono viste con occhio aperto e ricondotte nella loro essenzialità poetica da una finissima cromia che nella luce trova una sostanza atmosferica né cronachistica né occasionale. Città e paesaggi, uomini e cose, passano attraverso un filtro di estrema poesia , ma anche attraverso un ordine che si ricompone in realtà compositive di grande equilibrio anche sceniche.

 

1966

[23 febbraio 1966, Cronache dell’Arte … Galleria III, Via Santo Spirito, STAUDE E ALLIEVI. DIPINTI E DISEGNI, KAUNAT SCULTURE E DISEGNI, Mostra di dipinti e disegni di Staude e allievi; Sculture e disegni di Kaunat, dal 5 febbraio 1966]

Presente l’elenco degli espositori e delle opere:

Staude – Kaunat

Poli, Kautz, Lapi, Nutini, D’Harcourt, Eshbough, Stevenson, Ashpol

 

 

1968

[Staude dona un suo dipinto all’Accademia di Belle Arti: si tratta di “un paesaggio di belle dimensioni”: i convenuti alla cerimonia sono l’antiquario Gonnelli, Aldo Fortuna, Piero Bernardini, Giovanni Colacicchi, il pittore Franco Sacchetti, la pittrice Di Pentima, donna Karla Grossingen, il conte Arved Kurtz, Kirtz, presidente dei Lions Club di New York, il professor Ulrich Middeldorf.

 

 

1968

[Saletta Gonnelli, Via Ricasoli n. 6 terr., Hans J. Staude Dipinti recenti (1965-1967), 18 gennaio-1 febbraio 1968]

Si espongono una trentina di quadri: vedute del Castagno d’Andrea, vedute fiorentine, nature morte, fiori, figure. In catalogo:

 

“Hans J. Staude: Lettera ad un amico. Il Castagno d’Andrea – Estate 1967

 

Ti scrivo dal Castagno. Tutto qui mi piace: i monti, gli alberi (castagni e pioppi), i prati ed anche i tetti rossi, nuovi o rattoppati, paesaggio di un avvenire nel quale presto l’ultima casa sarà tramutata in villino dove ci si verrà a riposare dal trambusto, sempre più parossistico, più inumano, dei grandi centri.

Quando passo le ore, fermo davanti al cavalletto, a guardare ed a dipingere i monti distanti, i poggi vicini, il brullo promontorio di S. Martino, allora, in questo mio silenzioso guardare, mi prende un tal senso di benessere che quasi mi inquieto e avverto la cattiva coscienza di aver scelto come lavoro quello che è la mia gioia più profonda. E mi vengono in mente gli «impegnati» che trattano di disperazione e tragedia, di povertà, di solitudine esasperata, di orrore delle macchine, insomma: degli incubi che a molti sembrano i temi più urgenti dell’arte del nostro tempo.

Ecco dove volevo arrivare: al «soggetto».

Ma non si era d’accordo che il soggetto non vale che come pretesto per dipingere? E se è così: non è di poca importanza per quale ordine di idee (riguardo al soggetto!) il pittore si impegna? Non è l’unico impegno che conti quello che si ha verso l’arte del dipingere? Io lo credo, e credo anche che per dipingere occorra saper vedere e vedere sempre meglio. Credo che veda (e dipinga) bene chi sa vedere un insieme, chi concepisca questo insieme come un organismo nel quale ogni sua parte sia in un rapporto preciso con tutto il dipinto. Il soggetto, dunque, è pretesto e, come tale, non essenziale: storie sante, cesti di cavolo, vedute della zona industriale, vedute della montagna, bottiglie e fucilazioni.

Tutto quanto si vede (e quanto si immagina) può diventare per il pittore il pretesto per un’opera; basta che egli sia capace di farne qualcosa che abbia il suo valore nel campo del puramente visibile, che sia diventato «visione» (da «vedere»!) insomma, che sia successo il miracolo della trasfigurazione da «mondo» (visto o immaginato) a «pittura».

Raggiunta l’altra parte – cioè ottenuto un risultato pittoricamente valido – l’interesse per quello che era il pretesto che mise in moto le energie creative del pittore, è sparito e rimane il piacere olimpico per il giuoco fra forme e colori: è nato il quadro, il quadro che, attaccato ad un muro, diventa parte della casa e della vita di colui che ne è il padrone.

Forse, caro amico, ti stupisce che, ragionando in questo modo, io continui a stare quassù, come se in questo momento i soggetti del Castagno fossero di una importanza speciale per me. Difatti! Devo confessarti – e con questo, meno male! , passo all’irragionevole – che mi sono innamorato di questo paese, forse proprio per colpa dei suoi monti, che mi ricordano quelli dell’isola dove nacqui e dove s’impressero le prime immagini della mia mente.

Ti saluto e ti chiedo perdono se non ti ho scritto quasi niente che tu già non sapessi di me.

Tuo H. J. S.”

 

Presentazione di Alberto Maria Fortuna:

“Saper vedere! Proprio così. Saper vedere è saper capire (anche a modo nostro, ma comunque capire). E’ riuscire a vedere con gli occhi nostri quello che tutti vedono, spesso senza vedere, e saperlo interpretare come più ci piace. E’ una espressione della libertà, è un approfondire se stessi; o meglio, è un riconoscere quello che, delle cose, è più nostro. Così Staude, che negli scavellinai, nelle ripe a precipizio, nelle boscaglie appenniniche del Castagno ritrova con commozione il sentimento antico, originario ed universale che ogni uomo porta in sé: una profonda, latente, nostalgia della terra natale.

E allora (chi se ne può meravigliare?) nascono le opere valide. Valide, almeno per chi, dominando l’impulso facile, riesca a tradurre, come lo Staude – la meraviglia di riscoprire antiche emozioni, in un’opera che – come in una sinfonia non conosciuta, ma subito fatta nostra – sia viva per ogni spirito.”

 

 

1969

[Galleria Il Vaglio di Paolo Vaccarino. Arte contemporanea. Il Vaglio (Lungarno Corsini 8R). Mostra personale di Staude, 6 dicembre 1969]

Stesso testo della mostra del 1971 con le parole di Felice Carena.

 

[Mostra Villa Park S. Domenico – Via della Piazzola 55, settembre ?]

 

1971

 [Galleria d’Arte Moderna ‘Il Mirteto’, Palazzo Ricasoli-Firidolfi, Via Maggio 7, “STAUDE” Pastelli di Staude, dal 2 al 13 marzo 1971]

Presentazione di Umberto Canti. Recensioni di: Raffaello Franchi, Felice Carena, Ulrich Middeldorf, Giovanni Colacicchi, Alessandro Parronchi

 

Hans Joachim Staude

di Umberto Canti

 

“Impressionismo ed espressionismo sono le due correnti pittoriche a cui Hans Staude si rivolge all’inizio del suo iter artistico.

L’ambiente culturalmente fervido, che il giovane Staude trova nell’Amburgo degli anni ’20, lo porta proprio in quel periodo per lui formatore ad avvicinarsi a tali stilemi d’arte europea più prominente e di avanguardia. A tal uopo basterebbe volgere l’attenzione ad alcune rarissime xilografie del periodo espressionista per comprendere come l’allor sedicenne Staude sia riuscito a far propri quei canoni innovatori del primo ‘900 europeo. Ma l’opera dello Staude deve non solo essere veduta come aspetto culturale, rivolta al passato, bensì proiettata fino ai nostri giorni, per poter cogliere e sintetizzare quel valore recondito e quella bellezza pacata e mitigata, merito di un artista schivo e quasi timido, contrario il più delle volte, a parlar di sé per un innato pudor.

Da quei lontani anni del primo ‘900 alla deliberata scelta di soggiorno in terra italiana (tanto che odiernamente la pittura dell’artista deve essere ritenuta mediterranea, anche se talora quelle luci soffuse ci fanno riconoscere certe tonalità delle lande nordiche) si possono comprendere le innumerevoli tappe del pittore. La tradizione dell’arte del passato e l’attento e meditato studio del ‘400 umanistico sono da dover contrapporre a quella ricerca dell’essenziale che è alla base dell’arte dello Staude, ricerca che ha indubbiamente contribuito a trovare in lui quel perfetto equilibrio nelle svariate espressioni e a percorrere in maniera sicura e personale quel faticoso cammino.

Colore pacato e luce filtrata sono quelle caratteristiche che a prima vista colpiscono l’occhio del cultore d’arte: una luce e un colore sì mediterranei, derivanti da una visione interiore che l’artista sicuramente possiede. Visione che non nasce solo da un’acuta e attenta analisi del reale, ma da una visione che Staude stesso ricrea e vivifica nel suo io, tanto che di oggettivo ben poco rimane.

Solo uno sguardo sprovveduto e disattento potrebbe fer credere che i pastelli e le altre tecniche dell’artista debbano essere legate ad una contingenza reale, invece tanto i luminosi e soffusi paesaggi, quanto le trasognanti e trasognate nature morte e i profondi ed intensi ritratti, scavati psicologicamente, ci fanno comprendere quanto l’arte del pittore viva di un substrato recondito e profondo, derivato da un alto concetto del bello.

Le opere invero dello Staude create solo apparentemente in rapporto all’oggetto reale si volgono verso una visione metafisica e catartica che rispecchia e riflette l’acuta sensibilità dell’artefice, amante di captare l’intima essenza della natura e di ricrearla con un linguaggio consono alla nostra spiritualità.”

 

Raffaello Franchi

“La pittura di Hans Joachim Staude ci si presenta come il frutto di un romanticismo giunto alla piena estate della sua decantazione formale e spirituale. Non c’è più nulla, in essa, di evoluente nell’empito entusiasta ed esteriore degli atteggiamenti ma dappertutto, e nelle figure in ispecie, una compostezza dove il raggiunto ordine geometrico non fredda anzi rende più attendibile l’intima espressività del sentimento studiato nei volti, nei gesti, e nelle quasi casuali apparizioni delle nature morte e in quelle naturali dei paesaggi. Pittura severa e sobria, quantunque nella sobrietà non si debba sottintendere la modestia delle intenzioni. Perché, anzi, certi toni chiave di queste opere danno una sensazione, quasi, di profondo accordo d’organo, e paiono dirette a fondere, pittoricamente, una suggestione analoga a quella dell’affresco, e della tempera: tecniche che imprigionano, per così dire, ogni genere di screziatura in breve, di sfarzo sensibilistico, per poi restituirne la raccolta ricchezza solamente a chi dimostri meriti reali di serio osservatore.”

 

Felice Carena

“…L’amico Staude vuole soprattutto restare nei ranghi, come diceva Renoir, egli perciò non vagheggia immediati successi, non fa per raggiungerli immediati acrobatismi e la parola modernità gli suona male e non lo imbroglia, lui è sicuro che chi lavora con intelligenza e fiducioso amore del proprio sentire sarà fatalmente attuale come oggi si usa dire e fatalmente moderno. Non temere, dunque, caro amico, di essere giudicato, come anch’io non temo, un sorpassato, accademico e fuori tempo. Dio ci aiuti, caro Staude, ad essere in quest’ora fuori moda e non appartenere a nessuna avanguardia che è oggi la più vieta accademia, e non ci tolga Iddio questo privilegio che ci fa soli di una dolcissima solitudine.

Tu lo sai, Staude, tante volte me lo hai detto, che nessun lavoro è più bello del nostro: dipingere ciò che ci piace e come ci piace non pensando che a dare pace al nostro cuore ansioso di una anche piccola verità. Questo grande amore ci consolerà sino all’ultimo giorno della nostra vita e ci salverà dall’importuno inutile vociare, dall’arrembaggio faticoso e vano della vanità, e soprattutto dalla imbecillità di voler essere ciò che non siamo.”

 

Ulrich Middeldorf

“…Se poi il pubblico chiede generalizzazioni che gli facilitano l’inquadramento nelle varietà della vita artistica moderna, gli si risponda che difficilmente molti uomini possono essere ridotti a pochi comuni denominatori, specialmente ove si tratti di cosa così personale come l’arte. Nei confronti di tutti gli “ismi” e contrasti dialettici, bisogna tener fermo che l’unica verità è la limpida e vigorosa personalità, tutto il resto non è che fastidiosa emulazione. Ovunque si trovi una tale personalità dobbiamo accoglierla con gratitudine. Forse questo è particolarmente necessario nel caso di una figura così a se stante qual è Staude.”

 

Giovanni Colacicchi

La Nazione, 29 aprile 1963

“…Una parte delle sue opere a cui vorremmo che si guardasse con particolare attenzione, è poi quella formata dai pastelli. Nulla della frivolezza così facilmente propria dei pastelli si trova in quelli di Staude, anche se non può apparire che la ragione della scelta di questo particolare mezzo di pittura possa anche essere stata determinata da un certo timore di secchezza, o dal pericolo di dura laconicità, sempre possibile in procedimenti controllati, attenti come quelli della sua pittura a olio (secchezza e laconicità che abbiamo altre volte riscontrate, ma che la sua oculatezza o anche, forse, quella del suo critico e ordinatore hanno fatto sparire quasi del tutto).

Questi pastelli hanno una curiosa qualità di resistenza del “tono”, una magrezza carica di sostanza che li fa in qualche modo simili all’affresco, portando così il pastello dall’aura settecentesca che, a parte Degas, è in esso più frequente, ad allusioni quasi rinascimentali e a possibilità espressive, come nel ritratto della madre, frequenti solo in chi trova nell’arte oltretutto anche il più naturale mezzo di dire i propri intimi affetti.”

 

Alessandro Pastonchi

Il Pomeriggio, 19 gennaio 1949

“…Confrontando l’attuale pittura di Staude con quella di qualche anno fa non si può negare che l’artista si sia sottoposto, nel corso di questi anni, a una specie di macerazione, nell’intenzione di raggiungere una particolare forma pittorica. Non tanto conta perciò questa forma “imitata”, quanto l’intensità di quella macerazione, derivata da un naturale ritegno, da un pudore che, anziché vincersi, preferisce accettare, col senso delle difficoltà formali, una vera schiavitù. Di questo ci si accorge se si confronta, ad esempio, al viola soffuso, al rosa, all’azzurro, colori, diremo così, preesistenti nell’immaginazione del pittore, con gli effetti atmosferici a cui ci si sforza di condurli e tra l’impianto a volte convenzionale e tutto il sistema di tenui rotture a cui viene sottoposto nella ricerca di essenzializzarlo. (In particolare nei paesaggi veneziani). In questo lavoro una natura si trasforma a poco a poco nei modelli sui quali viene costantemente a esemplificarsi. E’ la storia di H. J. Staude, pittore di Amburgo.”

 

 

 

 

[Galleria Il Vaglio di Paolo Vaccarino. Arte contemporanea. Il Vaglio (Via Tornabuoni, 7). Mostra personale di Staude, 6 marzo 1971]

Testo sul dépliant della mostra:

“Staude è nato nel 1904 a Port-au-Prince, Haiti. Dal 1925 vive a Firenze. Dal 1938 a oggi ha tenuto una diecina di «personali», fra cui molto importante la Mostra Antologica all’Accademia delle Arti del Disegno nel 1963. Mostre personali ha ancora avute a Roma, Milano, Padova, Venezia, Amburgo e Colonia. Felice Carena che lo aveva avuto «fra gli scolari più severi e attenti» gli scriveva: “Tu lo sai, Staude, tante volte me lo hai detto, che nessun lavoro è più bello del nostro: dipingere ciò che ci piace e come ci piace non pensando che a dare pace al nostro cuore ansioso di una anche piccola verità. Questo grande amore ci consolerà sino all’ultimo giorno della nostra vita e ci salverà dall’importuno e inutile vociare, dall’arrembaggio faticoso delle vanità e soprattutto dalla imbecillità di voler essere ciò che non siamo”.

A queste parole, scritte in occasione della precedente mostra al «Vaglio» del 6 dicembre 1969 (e il cui successo di vendite vogliamo pure qui ricordare), è da aggiungere, mentre presentiamo gli oli della produzione di questo ultimo anno, la segnalazione di un’altra mostra, di soli pastelli, cui Staude è stato invitato e che si tiene in questi stessi giorni presso la Galleria d’Arte «Il Mirteto» in via Maggio 7.”

 

 

[Galleria d’Arte Cennini, “Mostra collettiva di artisti contemporanei”, 1-13 giugno 1971:

Renzo Agostini/ Antonio Berti/ Eugenio Chiostri/ Mario Romoli/ Hans J. Staude]

 

Giovanni Colacicchi, I cinque di Firenze, in “Fiera Letteraria”, Firenze, luglio 1971

(mostra di cinque pittori – Agostini, Mario Romoli, Berti, Chiostri, Staude alla Galleria Cennini in Borgo San Jacopo, Firenze)

[…] Quanto a Hans Jo Staude il nostro desiderio di parlare dell’opera sua sarebbe quello di farlo più diffusamente di quanto sarà possibile ora e a proposito dei dipinti che espone. Si tratta infatti di un pittore che ha portato nell’ambiente fiorentino una personalità nettamente individuabile e rilevante, in cui si sono fuse le correnti europee che hanno avuto maggiore importanza nel nostro secolo: quella degli impressionisti francesi, quella dei nostri macchiaioli e quella tedesca che si potrebbe indicare come derivata da Marès, e di cui si potrebbero trovare dei riflessi anche in alcuni artisti italiani. Sulla personalità di Staude questi apporti internazionali, uniti a una sincera passione e a un profondo studio dei pittori italiani del Rinascimento, hanno agito da elementi dinamici, come motivo di eccitazione culturale e di ricerca. La chiarezza intellettuale di Staude lo ha sempre distolto da ogni imitazione o stilizzazione, portandolo a una pittura fatta di umani diretti interessi, di precisione tonale e di armoniosi e scanditi equilibri. Nell’attuale esposizione egli si presenta con opere particolarmente immediate e rapide, in cui la ricerca costruttiva è condotta con tocco più leggero e più riassuntivo del solito.

Sono però in esse ben visibili tutte le qualità pittoriche di Staude e le alte intenzioni che guidano la sua volontà di artista.”

 

 

 

1972

[Hamburg – Haus, Eimsbüttel, 7-30 aprile; Hans J. Staude. Ein Hamburger Maler in Florenz. Porträts und Landschaften. Hans J. Staude. Un pittore di Amburgo a Firenze. Ritratti e paesaggi. Presentazione in catalogo di Will Hoffmann.]

 

Mostra di Hans-Joachim Staude

Una delle mostre più importanti ed essenziali da lungo tempo. Nei ritratti, paesaggi, e nature morte si compiono dei processi che è urgente comprendere, meglio oggi che domani. Non si resiste al fascino di questa pittura. L’occhio dell’artista, che un tempo, prima di andare a vivere a Firenze, è stato allievo del nostro ginnasio “Johanneum”, penetra fin nel profondo della persona rappresentata. Ma, invece di venir decomposto e squadernato come in una psicoanalisi scadente, il soggetto è condotto alla sua vera essenza in un senso superiore: passato, presente e futuro, tutto il suo destino si concentra in un punto, come al di fuori del tempo in un senso superiore.

Per molte di queste opere, in particolare nelle nature morte, le parole non bastano più: qui si raggiunge l’ultima e massima autonomia dell’arte figurativa. Nei paesaggi cittadini anche le opere di architettura lasciano la temporalità della loro origine e raggiungono un’essenza duratura e autonoma. Al di là del brulicare degli uomini e del tempo che si sfalda, esprimono la loro appartenenza al mondo delle idee – un processo toccante, davvero coinvolgente.

Will Hoffmann

 

 

Nulla di “Pop” né di “ismi”

Nel mondo dissonante del commercio dell’arte di oggi emerge una mostra di opere del pittore fiorentino HJS nello Hamburg-Haus, che con questo evento raggiunge un apice della sua storia.

Il pittore è nato a Haiti, ma ha avuto la sua educazione ad Amburgo. Dal 1929 vive a Firenze. I suoi quadri sono del tutto contrari all’arte di oggi. Nulla di “Pop” né di “ismi”, soltanto pittura pura, fuori dal tempo. Nelle sue figure il senso profondo dell’arte si chiarisce: ciò che l’apparenza fisica non manifesta è colto dall’occhio dell’artista.

Questa pittura innalza l’essere contingente del rappresentato conducendolo a un valore autonomo e a un destino superiore in un tutto spirituale. Così si supera il presente immediato e la figura rappresentata è ricondotta a un valore superiore – un processo enorme che prende lo spettatore in un vortice e non lo lascia più libero.

La vita vissuta fino al presente trasparirà come pure gli inizi del destino futuro, e in questa tensione il presente si riduce a un punto. Attraverso lo sguardo dell’artista nel profondo il passato, il presente e il futuro si trasformano in un’unica dimensione – un processo moderno che è stato descritto per la prima volta dal grande Jean Gebser (1905-1973) all’inizio del ventesimo secolo.

Nei bellissimi paesaggi si compie qualcosa di simile. I paesaggi urbani senza il casuale brulichio umano dell’attimo appaiono nella loro essenza – testimoni di pietra della durata passata e futura. Molte di queste opere, soprattutto le nature morte, non sono descrivibili a parole: ci troviamo di fronte all’estrema, massima autonomia dell’arte figurativa.

Will Hoffmann

 

 

Corrado Marsan: “È morto Staude” (La Nazione, luglio 1973)

 

All’improvviso, in silenzio, se n’è andato anche Hans-Joachim Staude, un pittore – riservato quanto autentico – che, da quasi cinquant’anni aveva fatto di Firenze la sua seconda patria. Staude era nato a Port-au-Prince (Haiti) nel 1904 e dal 1925 risiedeva a Firenze dove , tra il 1935 e il 1938, aveva frequentato la scuola di pittura di Felice Carena all’Accademia di belle Arti. Artista colto e raffinato (si pensi, ad esempio, al suo fervido lavorio in quella prodigiosa fucina di idee e di “secessioni” che fu Amburgo negli Anni Venti: e in quel particolarissimo clima di scoperte e di invenzioni Staude iniziò una proficua e personale rilettura delle avanguardie nordeuropee dei primi anni del secolo; e come non ricordare, di quel periodo, alcune sue rarissime e preziose xilografie di evidente stampo espressionista?), Staude si è rivelato, nel tempo, un abilissimo “osservatore” della natura e un coerente e generoso difensore dei valori più genuini e umani della “missione di pittore”.

Aveva allestito, con successo, numerose mostre personali in Italia e all’estero: l’ultima volta che ci siamo trovati davanti a un suo nutrito gruppo di opere fu nel marzo del 1971, in occasione di una mostra di pastelli alla galleria “Il Mirteto”, a Firenze. In catalogo figuravano, tra l’altro, cinque autorevoli testimonianze critiche di Raffaello Franchi, Felice Carena, Ulrich Middeldorf, Giovanni Colacicchi e Alessandro Parronchi: cinque diverse “visioni” del lungo e complesso viaggio esplorativo di Staude all’interno della cosiddetta “vicenda figurativa”; un viaggio, a ben vedere, sempre controllato e illuminato dalla grazia e dalla intelligenza e da una innata e insopprimibile lealtà nei confronti delle piccole e semplici cose di ogni giorno.

“Tu lo sai, Staude, tante volte me lo hai detto, che nessun lavoro è più bello del nostro: dipingere ciò che ci piace e come ci piace… Questo grande amore ci consolerà sino all’ultimo della nostra vita e ci salverà dall’importuno, inutile vociare, dall’arrembaggio faticoso e vano della vanità, e soprattutto dalla imbecillità di voler essere ciò che non siamo”: sono parole, calzanti, di Carena. Parole alle quali fanno eco, come d’incanto, quelle altrettanto felici del Colacicchi: “Questi pastelli hanno una curiosa qualità di resistenza del “tono”, una magrezza carica di sostanza che li fa in qualche modo simili all’affresco, portando così il pastello dall’aura settecentesca che, a partire da Degas, è in esso più frequente, a illusioni quasi rinascimentali e a possibilità espressive, come nel ritratto della madre, frequenti solo in chi trova nell’arte oltretutto anche il suo naturale mezzo di dire i propri intimi affetti”. A tutti noi, adesso, il compito di ripercorrere senza fretta, tra tele e fogli, le tappe salienti delle “confessioni” di Staude: confessioni che sono la riprova, limpida e immediata, di un commosso e struggente saggio di idealità e di passioni.